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Santu Grasu

Santu-Grasu1Gli oltre diecimila abitanti di Cetraro sono, almeno per i due terzi, dislocati nelle numerose frazioni e contrade che costellano, ciascuna con la sua storia e le sue peculiarità, gran parte dei suoi circa sessantasei chilometri quadrati di superficie.

Santu Grasu è il nome che comunemente si da’ alla bella e ubertosa contrada cetrarese ubicata sul lato sinistro del greto dell’Aron, ufficialmente denominata San Biagio. Al nome Grasu si è giunti, attraverso successivi passaggi, da Vrasi, che, nell’uso antico, significava appunto Biagio [1].

In alcune zone contadine sopravvive, infatti, accanto a quella di “Santu Grasu”, anche l’antica denominazione di “Santu Vrasi”.

Santu-Grasu2I festeggiamenti del Santo, che ricadono il tre febbraio, erano celebrati, sin dall’antichità, con grande solennità e viva partecipazione da tutti gli abitanti del paese. Tra l’altro, i “galantuomini” della zona, proprietari di mandrie, solevano, nella circostanza, donare agli organizzatori della festa, magnifiche forme di formaggio stagionato (‘i pezzi ‘i casu). Queste, appese ad alcuni alberi, erano messe in palio a beneficio di chi le avesse raggiunte, da una certa distanza, a colpi di fucile caricato a palla.

I cacciatori vi accorrevano, perciò, numerosi dalle contrade vicine e dal centro cittadino per partecipare alla gara nella prospettiva di portare orgogliosamente a casa come trofeo, testimone della propria infallibile mira, una bella pezza ‘i casu, anche se sforacchiata da una pallottola di piombo.

L’usanza è ora scomparsa, sia perché, nel ridimensionamento dei ceti sociali intervenuto, non ci sono quasi più galantuomini possessori di mandrie (semmai le possiedono i loro ex coloni), sia perché non ci sono più formaggi a disposizione, sia perché non ci sono più organizzatori così temerari e non ci sarebbero, probabilmente, neppure cacciatori disposti a partecipare a una così modesta contesa.

Senza-titolo-3Rimane viva, invece, un’altra antica forma di devozione al Santo, ritenuto per tradizione  “protettore della gola”: il tre febbraio, nella ricorrenza della festa, gli abitanti del luogo, ma anche  quelli provenienti dalle contrade vicine e dal centro cittadino, sciamano a frotte verso la chiesina di San Biagio per assistere alla celebrazione della Messa che si conclude, tuttora, con la solenne “benedizione della gola”.

Questa viene amministrata dal sacerdote,  secondo la tradizione, appoggiando,  nel corso della celebrazione, due lunghe candele, incrociate e prudentemente spente, alla gola dei fedeli.

L’opportunità risulta particolarmente gradita in tempi in cui imperversano virus e affezioni respiratorie di ogni genere, natura e ceppo, di varia provenienza.

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In primo piano, all’ingresso della contrada, la chiesetta di San Biagio.
[1] Cfr. Rohlfs in “Nuovo dizionario dialettale calabrese”.
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