Negli anni ’60 e ’70, la scuola italiana riflette le tensioni di un Paese in piena trasformazione. Chi ha vissuto quegli anni, certo, ricorderà, e forse anche con una certa nostalgia, che il sistema d’istruzione era rigido, anzi severo. La scuola era un luogo di formazione. Lì si forgiavano i ragazzi, i loro caratteri e si costruivano le basi per il loro futuro.
Proviamo a varcare la soglia di una classe negli anni 60 del 900. D’improvviso entriamo in un mondo ordinato, pulito, che profuma di gesso e, quando è primavera, anche dei fiori che qualcuno porta alla maestra. Il maestro, il professore ha un’indiscussa autorità, è una vera e propria guida, ed è rispettato dagli alunni. I quali sono tutti uguali, almeno in apparenza, perché tutti indossano il grembiule. Il grembiule, cucito dalla mamma o dalla sarta, è nero ed ha uno stile semplice.
Con quel colletto bianco inamidato che sembra non voler mai star dritto. Il fiocco che cambia colore a seconda della classe che si frequenta e che deve sempre stare in ordine. Proprio i grembiuli rappresentano un segno e cioè, che all’interno delle aule non esistono distinzioni di classe o di ceto.
Epperò, non sempre è così. L’aula in cui siamo entrati ha tre file ordinate di banchi. I banchi sono di legno massiccio, su cui i ragazzi che li hanno usati negli anni precedenti hanno scolpito i loro nomi. Sono a due posti ed hanno il vano porta-cartella ed il buco per il calamaio. Ma noi, ormai, il pennino non lo usiamo più, abbiamo le biro e stiamo molto attenti a non perderle.
La mia maestra vuole che abbiano il tratto blu perché il nero le dà fastidio agli occhi. Si sente un odore particolare. Odore di gesso, di legno, di libri, di carta e di trucioli delle matite temperate. Le aule scolastiche sono allocate in case private. Questa è giù, nella “ Giorgia”, nel palazzo De Caro, il più antico di Cetraro.
Le stanze sono prive di riscaldamento; c’è un braciere che la signora Egidia tiene vicino alla cattedra. Alle pareti ci sono due grandi carte geografiche una dell’Italia, una dell’Europa ed in fondo alla classe, c’è quella che rappresenta il mondo intero così possiamo comprendere meglio la posizione del nostro Paese. E poi c’è la lavagna. E’ in un angolo, ma in effetti è essa il centro della classe. E’ proprio alla lavagna che ogni giorno combattiamo le battaglie con la matematica, le date di storia, le regole della grammatica. Andare alla lavagna ci mette sempre un po’ in agitazione, è vero, ma è lì, dove ci copriamo di gesso, che impariamo davvero. Non si sente una mosca volare, proprio come desidera la maestra. Solo la sua voce che spiega e ci invita all’attenzione e la nostra quando siamo chiamati a intervenire.
La disciplina è molto rigorosa e non mancano le punizioni: un richiamo a voce alta, una nota sul registro; nei casi più estremi, una tirata d’orecchio o una bacchettata sulle mani oppure in castigo dietro la lavagna. La mia maestra non usa mai la bacchetta per colpirci. Ma la severità spesso nasconde un affetto vero per gli alunni. Alle elementari abbiamo solo due libri e li portiamo in una borsa rigida chiamata cartella; è in cartone, ricoperto di materiale resistente oppure in cuoio. La mia è marrone ed è un po’ consumata perché prima è stata di mia sorella, ma a me piace molto perché ha una piccola tasca davanti.
Per arrivare nella mia classe da cui si vede il mare, devo attraversare altre due aule. In una di queste c’è un maestro che dopo le preghiere mattutine e prima dell’inizio della lezione insegna degli inni patriottici ai suoi ragazzi. E non è l’unico a farlo! E’ questo per me uno dei momenti del mattino che adoro perché noi non cantiamo, noi diciamo solo le preghiere. Invece nella classe della signorina Mariannina Lanza, le ragazze sono tutte in piedi, quasi sugli attenti. Lia, Giulia, Gabriella e le altre loro compagne ,dopo aver cantato “la canzone del Piave” continuano così :
“Noi vogliam Dio, Vergine Maria,
benigna ascolta il nostro dir…
Deh benedici, o Madre, al grido della fe’,
noi vogliam Dio, ch’è nostro Padre,
noi vogliam Dio, ch’è nostro Re./
…
Noi vogliam Dio nelle famiglie
dei nostri cari in mezzo al cor
sian puri i figli, caste le figlie,
tutti c’infiammi di Dio l’amor…
Io ho imparato quest’inno dalle alunne della signorina Lanza che lo hanno cantato per cinque anni tutte le mattine, anche nel nuovo edificio. Infatti nell’anno scolastico 1968/69 tutte le classi vengono trasferite nel nuovo istituto, quello che porta il nome di Giuseppe Militerni. E’ modernissimo. Ci sono persino i termosifoni, che spesso, però, non riescono a scacciare il freddo umido delle mattine d’inverno quando gela l’acqua nella fontana d’ “ u Gigandi”.
Cambiano i banchi, la cattedra, ma non la lavagna e le carte geografiche e neanche i metodi e lo stile degli insegnanti. Alcune mattine, mentre noi stiamo seduti, con le mani aperte sui banchi, ci ispezionano il colletto, il fiocco e le unghie. Bisogna essere tutti puliti ed ordinati. I quaderni, ve ne sono ancora alcuni con la copertina nera, vengono controllati con attenzione dagli insegnanti, che sottolineano con penne rosse ogni errore, e spesso quelle pagine sembrano campi di battaglia.
La ricreazione è il momento più atteso ma è davvero breve. Le merendine confezionate non esistono, e ci portiamo da casa un pezzo di pane con quel che si ha o qualche biscotto fatto in casa. Si sta nell’atrio oppure si resta in classe. Noi bambine giochiamo a “un due tre stella” oppure a “ripiglino”. Si gioca in due o tre persone , usando le mani ed uno spago o una cordicella. Il gioco consiste nel formare figure intrecciando a turno la cordicella intorno alle proprie dita; i maschietti giocano a figurine, sbattono a terra con violenza la mano accoppata accanto al mazzetto di figurine impilate per capovolgerle con l’aria mossa.
Questi momenti sono piccoli frammenti di felicità. Poi qualcosa cambia… Noi cresciamo ed andiamo alle medie. Le cartelle diventano zaini, che cuciono le mamme o che comprano al mercato, e poi andiamo al liceo e quel semplice elastico che tiene insieme i libri ci fa sentire adulti. Il liceo in quegli anni è anche il luogo dove, per la prima volta, si inizia a discutere di politica e società. Anche perché l’Italia attraversa momenti di grande fermento sociale: il boom economico, le contestazioni studentesche, le battaglie per i diritti civili. Questi temi influenzano profondamente il modo di insegnare ed anche quello di apprendere. E quanti pomeriggi passati a studiare insieme! E poi ci sono le amicizie ed i primi amori nati tra i banchi.
Ricordi che oggi, a distanza di decenni, continuano a suscitare un sorriso.
La scuola finisce a metà giugno, di solito è il 18 che si conosce l’esito dello scrutinio finale. L’ultimo giorno di scuola è spesso una giornata di allegria e di festa, ma anche di commozione e di riflessione, perché la scuola, con i suoi banchi di legno, le lavagne e gli insegnanti rigorosi, in fondo è un luogo importante nella nostra vita. Si sta insieme ancora per qualche ora; si canta e si gioca e gli insegnanti si impegnano a creare un’atmosfera di gioia.
La classe si fa la foto di gruppo. E’ una foto in bianco e nero. Ci mettiamo in posa, le ragazze nella prima fila e i maschi dietro, con l’ insegnante sul lato a sorvegliare, e il fotografo: “sorridete, ragazzi, prego!” Eccola! è una foto amica dei ricordi e della nostalgia. Io sono quella in prima fila, poi c’è la mia amica che pare stia con la testa fra le nuvole. Accanto c’è Anna, con la frangia folta ed il sorriso che si porta dietro da sempre. Quando ci vediamo, ancora oggi, ragazze di una certa età, andiamo indietro a quei giorni, a quella foto ,a quei sorrisi di fine anno scolastico e alle promesse d’estate, di vacanze. Ci rivediamo a giocare nel cortile… “ un due tre stelleeee”, sentiamo lo stormire leggero di quelle ventate di strilli e di voci accese, mentre ci prepariamo per le vacanze estive e per i nuovi compiti che ci attendono a casa.
Solo qualcuno partirà per le vacanze, la maggior parte di noi andrà solo al mare… quando potrà . E alcuni di noi si ritroveranno sulla stessa spiaggia e magari faranno insieme, a piedi, il tragitto dalla ‘Nzilica dei Mulini per raggiungerla. Poi la sera ci ritroveremo anche in piazza per passeggiare, perché il passeggio non può mancare, è un rito.
Epperò c’è anche chi con la chiusura dell’anno scolastico, percepisce che qualcosa sta inevitabilmente cambiando e quasi teme la libertà dell’estate. Ed allora le emozioni non sono solo gioia , ma anche senso di vuoto. Per i ragazzi di quinta poi, la scuola non è veramente finita. C’è l’angoscia dell’esame e soprattutto del futuro. Sarà per questo che alcuni di noi si abbracciano e piangono in maniera inconsolabile. Forse l’ultimo giorno di scuola è solo un pretesto per piangere senza dare giustificazioni.
Perché l’ultimo giorno di scuola non segna solo la fine dell’anno scolastico e di un ciclo di crescita ,ma anche l’inizio di un nuovo capitolo della nostra vita di cui, però, solo ora percepiamo la “crudeltà” del cambiamento.