I racconti di Marina: “Chi ti dice ca ti vo’ cchiù beni i mamma ‘i cori ti ‘nganne”

Quante volte abbiamo sentito questo modo di dire! Non è forse l’ omaggio più bello che si possa fare a tutte le mamme?
Epperò tra le righe nasconde anche un’importante lezione di vita, come sempre fa l’antica saggezza popolare. L’espressione, svela con sottile ironia l’idea che nessuno può prendersi cura di noi con la stessa autenticità, con la stessa purezza ed uguale naturalezza e disinteresse di una madre.


Perciò bisogna stare attenti a chi sembra offrirci più di quanto farebbe una madre, perché potrebbe nascondere un secondo fine. Ci invitavano a diffidare di chi mostra troppa generosità o eccessiva attenzione, cercando parole che possano far leva sulla nostra sensibilità, millantando un legame autentico come è quello di una madre. E ci davano un consiglio prezioso: saper distinguere tra affetto sincero e finzione e valorizzare chi ci ama davvero senza secondi fini, come solo una madre può fare. Insomma la madre è simbolo di amore puro e incondizionato e “mamma” è una parola che non si smette mai di pronunciare, anche quando la sua figura viene a mancare. A lei ci rivolgiamo per tutta la vita come se fosse sempre accanto a noi.

Epperò pensare alla mamma richiama anche i ricordi delle ninne nanne, le nenie semplici e melodiche dal ritmo lento e cadenzato, che le nostre madri ci cantavano da bambini per addormentarci.

Era quello, un momento di profonda tenerezza ed è oggi, un ricordo prezioso della nostra infanzia. Un tempo, i vicoli di Cetraro, ancora pieni di vita, risuonavano delle voci delle mamme e di sera le loro ninne nanne erano accompagnate dal ritmo “d’ annazzicu”. Esse stringendo al petto i loro bimbi, ne placavano i pianti con baci e carezze e li facevano addormentare accompagnandoli nel mondo dei sogni dolcemente, affidandoli alla protezione della madre più grande, la Madonna:


“E la Madonna di ca jì passata /e di ninnilla mia s’addummanata …
E tu Madonna mia chi mi l’a’ data/
fammila stadi bona e mai malata …”
E ancora continuavano a rassicurarli del loro amore:
“ Lu beni di la mamma jì di cori
chillu d’a gendi jì sulu paroli…”

E qui ritorna il concetto dell’espressione in epigrafe e cioè che nessun amore può superare quello di una madre e chi ti dice il contrario ti inganna . Per celebrare la maternità ed esprimere gratitudine alla figura della mamma è stata istituita una festa (che in verità ha origini che risalgono a tempi molto antichi) e si è scelto di farlo proprio nel mese in cui s’aprono i fiori più belli ed esplode la primavera. Oggi nella corsa del fare che ci assilla tutti i giorni, certi valori vengono lasciati da parte ed allora fermiamoci un attimo e torniamo indietro.

Torniamo agli anni sessanta del 900, quando si festeggiava la mamma onorandola con piccoli gesti, un fiore raccolto nei campi o una rosa staccata da un ramo che fuoriusciva dal giardino di qualche palazzo signorile. La radio trasmetteva qualche brano a lei dedicato, le voci di Luciano Taioli e Nunzio Gallo, facevano emozionare:
“Mamma, solo per te la mia canzone vola
Mamma, sarai con me, tu non sarai piu sola
Quanto ti voglio bene
Queste parole d’amore che ti sospira il mio cuore
Forse non s’usano più…”.


A quei tempi la ricorrenza cadeva sempre l’8 maggio perché era legata alla solennità della Madonna del Rosario di Pompei, molto sentita nel nostro paese ma, soprattutto nel quartiere di ‘a srata e d ‘u Chianu. E ‘ndr ‘à chiesiella da Madonna i Pompei, tra rose profumate e rosari guidati dalle suore di Maria Ausiliatrice, noi ragazzi passavamo parte del mese di maggio dedicato alla madre di tutte le madri. E con entusiasmo ci preparavamo ad onorare anche la nostra mamma. Nelle scuole si cominciava già qualche settimana prima. A quei tempi la maestra delle elementari era una sola e rappresentava una seconda madre. Così chiudevamo per un po’ il sussidiario, il libro in cui c’erano tutte le materie, perché ora c’era la poesia da imparare. La mia maestra, Egidia, Gida ‘i Ndoni, ne cercava una bella che si potesse mandare facilmente a memoria, ma soprattutto che ci emozionasse. Succedeva, a volte, che nel nostro libro di lettura ce ne fosse una sola e non la soddisfacesse ed allora, ella assumeva un’espressione desolata, si toglieva gli occhiali poggiati sulla punta del naso e con fastidio diceva: “No no no, non va bene. Ne troverò un’altra.”

Il giorno dopo arrivava a scuola con un libro dalla copertina di pelle nocciola, l’apriva e ci leggeva i versi con voce commossa:
“Non sempre il tempo la beltà cancella
o la sfioran le lacrime e gli affanni
mia madre ha sessant’anni
e più la guardo e più mi sembra bella…”


Poi si avvicinava alla lavagna. Mi pare di vederla… il libro piegato in una mano, nell’altra il gessetto bianco mentre scrive leggera sull’ardesia nera la poesia e noi, composte nei banchi, intente a copiarla, evitiamo con cura di saltare una parola o una virgola. Finita la strofa si sposta sul lato della lavagna, apre le braccia e attende qualche minuto:“ Scrivete subito perché tra poco cancello”. Poi chiama la più alta della classe ( la nostra è femminile) a cui affida il compito di cancellare. Ci accorda qualche giorno di tempo per mandare la poesia a memoria. “ A campanello la voglio sapere!”
La maestra ci insegna persino come dobbiamo comportarci il giorno della festa. Andiamo dalla mamma ,la baciamo, le doniamo il fiore e poi recitiamo la poesia interpretandola non solo con la voce, ma anche con i gesti e le espressioni facciali. Io salgo sulla sedia, ed inizio a recitare proprio come la maestra mi ha insegnato. Vedo mia madre commuoversi e quando scendo dal mio palcoscenico trovo le sue braccia ad accogliermi.