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Dizionario. Di come si viveva in Riviera e dintorni, di Ciro Cosenza: la presentazione del libro

Last updated on 29 Agosto 2021

«Ho letto il libro del prof. Ciro Cosenza con molta attenzione e, direi, con commossa partecipazione, perché i suoi testi, come pure quelli degli altri cultori di storia locale, raccontano la vita di Cetraro che io non ho vissuto. Mi hanno aiutato non poco a mettere radici in questo paese dove sono arrivata  tanti anni fa.

Ero molto giovane ed ho fatto presto a ‘mettere radici’. “Le radici sono importanti” dice suor Maria nel film La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Sono uno degli sprazzi di bellezza individuati dal regista.

Per questo suo ultimo volume l’autore ha scelto la formula del  dizionario. Il titolo, Dizionario,è fuorviante. Fa subito pensare ad un asettico  elenco di lemmi in ordine alfabetico con annessa spiegazione. C’è anche questo, ma non è tutto. Il sottotitolo conduce nella giusta direzione. Dizionario. Di come si viveva in Riviera e dintorni.

Ogni termine un racconto, un quadretto di vita familiare e sociale, uno scorcio della cosiddetta grande storia che fa capolino nella  vita delle persone e la influenza. La microstoria che è parte della Storia con la esse maiuscola.

Insomma nel libro l’autore intreccia storia materiale e storia immateriale nazionale e vita locale.

Quando spiega cos’era un album di dischi ,parla dei cambiamenti nel modo di ascoltare musica. Fa la storia del disco dai 68 giri agli LP, dalla nascita del fonografo e  del grafofono alla fine dell’Ottocento ai mangia-dischi, all’Mp3.

Nel raccontare fa tappa negli anni ‘20  quando i reduci volevano dimenticare il fuoco e la trincea. Negli anni ‘30 quando il regime fascista influì non poco sull’Italia musicofila.

E giù titoli e titoli di canzonette scritte da compositori e parolieri  ispirati dalla politica del fascismo in favore dell’agricoltura  e dalla guerra d’Etiopia .

Del termine football non c’è la spiegazione, nota a tutti, ma c’è la storia del Tirreno cosentino dagli inizi del Novecento ai giorni nostri, quasi fotogrammi di un film che raccontano come con gli oggetti cambiano le persone, che i luoghi della Riviera vivono, e lo spirito dei luoghi.

C’è com’era fatto un pallone da calcio subito dopo la prima grande guerra (allacciato esternamente per mezzo del curriuolo) e come vecchie scarpe venivano “truccate”, da ciabattini compiacenti  con tintura nera, lacci bianchi e tacchetti. Parla delle sfide amichevoli, che si disputavano anche nelle feste patronali  che proprio perché amichevoli,  finivano di solito con delle generali scazzottate. E allora ecco che l’autore racconta dei comitati delle feste, della loro organizzazione, delle bande e dei fuochi d’artificio. Riporta le date di costituzione delle prime società sportive nel Tirreno cosentino: il Brutium Football Club di Scalea (1912), il San Lucido (1918), la U.C.Paolana (1922) e la Sportiva DUX di Diamante (1929).

Dall’ieri arriva all’oggi, al sorriso di commiserazione di un ragazzo di oggi che attraverso le emittenti  può seguire “i campionati della Lega inglese e di quella scozzese, quello della Bundesliga tedesca e della Liga spagnola”.

A proposito dei giochi con le carte, al lemma Tressette e briscola dipinge gustosi quadretti di vita sociale. Ci fa vedere quello che accadeva nelle salette da gioco, annesse ai bar, nel corso del tempo fino alla loro scomparsa con l’arrivo della televisione. Emergono figure di uomini che certamente i più anziani tra noi ricordano: mastro Peppino, il signor Bianchini, l’appuntato Rotundo della Guardia di Finanza, il figlio Salvatore, i giovani di allora.

Riporta alcune frasi che si pronunciavano quando si giocava a scopa, per sottolineare i vari momenti della giocata: Quannu tuttu u munnu è paru, va buonu u cartaro; oppure scarti frusciu e pigli primera. Una frase in particolare mi ha colpito. Veniva pronunciata quando l’esito della partita era ben delineato e il giocatore, che non aveva più scampo, indugiava con la carta in mano, riflettendo su come giocarsela. Gli astanti dicevano: Ma che ci pensi a fare? O cachi, o fui, o vai alla turra! Questa frase l’autore l’ha capito solo anni dopo, aiutato dalla Storia del Medioevo.

Leggete il libro e vi verrà svelato l’arcano.

Quando parla dei comizi, fa la storia dei più importanti partiti dal dopoguerra ad oggi, parla delle schede elettorali,  della difficoltà di barcamenarsi tra numerosi simboli per gente che era ormai disavvezza alla pratica delle elezioni, fino agli anni Sessanta, quando cominciò a scemare l’interesse per i comizi. Quindi dell’arrivo della televisione e della prima Tribuna elettorale, l’11ottobre del 1960, del modo di fare propaganda, dai comizi, appunto, fino alla propaganda a mezzo posta o a mezzo telefono.

Qua e là emergono figure di donne e uomini che praticavano mestieri ormai scomparsi. La lattara, la caldarrostaia, u zinzularu, u caudararu, a mammana, per citarne alcune.

Qua e là emergono quadretti di vita familiare e sociale ora commoventi, ora ironici, ora divertenti. Quadretti di vita che sanno del calore di nonne attorno al braciere, di donne che sulle scale esterne delle loro case fanno comunità, di atti di solidarietà coi vicini che vivono momenti difficili o lieti della loro vita ( l’adduornu, u cuonzolo, , u tartignu…), delle lacrime di un ragazzino, che non riesce a prendere il ricco premio che pende dall’albero della cuccagna, mentre  la mamma, una vedova povera …,  trepidante, assisteva, confusa tra la folla.

Flash di modi di vita ormai agonizzanti, se non scomparsi addirittura: il momento della recita del rosario in famiglia,ad esempio, i saggi ginnici negli anni del dopo guerra, la visita ai sepolcri con tutta la famiglia, la disposizione degli invitati nel corteo nuziale dove le coppie erano disposte secondo un’antica tradizione,i comizi elettorali, dopo la guerra ed il fascismo, dove la gente correva per stare insieme agli altri dopo mesi e mesi di angustie , di nascondere e nascondersi, così come correva ai battesimi, alle festicciole sulle terrazze, alle gite in barca alle grotte, alle partite di calcio al campetto del paese. Correva,insomma, dove c’erano gli altri.

Ecco che l’autore racconta il senso ormai perduto di alcuni toponimi (l’acquaru, a via j rota). Contestualizza espressioni dialettali e strofette di tarantelle arrivate fino a noi. Quando parla di una figura ormai scomparsa, u mulinaro, divenuto fornaio dopo l’ultimo conflitto, riporta una saporita strofa di una vecchia tarantella  a dispetto. Sente il bisogno di tradurla, perché i ragazzi di oggi non conoscono più il dialetto dei nostri padri.

Tradizioni orali che parlano di un mondo che cominciava la sua agonia già dagli anni Sessanta quando anche nel Sud cominciava a diffondersi la rivoluzione industriale.

Per la prima volta nella sua storia l’uomo cominciava a disperdere abilità che lo avevano accompagnato fin dalla più remota antichità. Per la prima volta l’uomo regrediva ‘dalla mano al tornio’ con conseguenze non solo nella vita economica, ma anche nella vita sociale. Allora si gridò alla catastrofe antropologica.

Il nostro Dizionario si può inserire nel filone delle opere che fiorirono a cominciare da quel periodo. Opere che raccolgono tutto quel patrimonio di usanze, tradizioni, tecniche di lavoro, tradizioni orali che aveva ritmatola vita di una società prevalentemente contadina.

In esso, però, non c’è  il senso della fine. C’è una certa nostalgia, non l’apocalisse antropologica. Nostalgia emerge qua e là. I ragazzi di oggi, con tutti i giochi elettronici e i computer a disposizione, certi giochi non sanno neppure che esistono e non sanno che si perdono! Sottolinea l’autore a proposito del gioco dell’ammucciarella  che permetteva a qualche coppietta nascosta innocenti effusioni che , allora, non erano permesse.

Vi assicuro, era un bel vedere! Sottolinea  a proposito delle palme, adornate dai ginetti, che ogni  bambino portava in chiesa la Domenica delle palme per farle benedire.

Non c’è il senso della catastrofe, c’è  il senso dello scorrere della vita che, scorrendo, si trasforma, non muore. La storia di ogni oggetto, tradizione, tecnica lavorativa è una storia aperta verso il futuro.

La tradizione, il passato, insomma, non sono un castello turrito in cui rinchiudersi e da cui ci si oppone alla minaccia che viene dal presente e dal futuro che incombe velocemente, dalla minaccia che viene da altri paesi perché, afferma l’autore, “Ogni mondo è paese. Il tuo paese”. Sono anche questi dettagli che mi fanno apprezzare i libri del professore Cosenza. Dall’ uomo colto qual egli è non ci si può aspettare chiusura e intolleranza.

Per concludere, come ho detto, nel volume c’è in piccola misura la grande Storia. Ci sono, però, nella quarta di copertina tre citazioni importati sul concetto di Storia: di S. Agostino, di Hegel e di Benedetto Croce. Sono certa che il prof. ce ne spiegherà la motivazione.

Questi che ho esposto sono solo alcuni dei tanti spunti di riflessione che il volume sollecita. Tante sono le domande che vorrei porre al professore.

Una soltanto per cominciare. Perché un dizionario e non un romanzo- documentario vero e proprio o meglio la sceneggiatura di un film?»

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